Blog

Notizie e aggiornamenti sulle attività professionali dello Studio.

Ti trovi qui:Home»Notizie»la società partecipata: questo essere mitologico

la società partecipata: questo essere mitologico

 

Qui di seguito riporto un articolo pubblicato sul quotidiano giuridico Ipsoa, che riprendendo il contenuto di una recente sentenza dell S.C. fa il punto sulla "fallibilità" delle società partecipate che svolgono pubblici servizi, oltre che sulla responsabilità contabile degli amministratori.

L'argomento continua ad essere estremamente dibattuto e ricco di incognite per gli operatori, costretti a districarsi in un panorama legislativo fratsagliato ed a volte contraddittorio, peraltro più volte soggetto a interventi della Corte Costrituzionale, che ne hanno modificato sostanzialmente la portata, sia sotto il profilo giuridico che sotto quello politico-amministrativo.

Allo stato, duole ricordare, non esiste una disciplina dei servizi pubblici e delle società partecipate che dia responsabilmente agli operatori gli strumenti utili ad una corretta gestione del settore, da considerarsi certamente strategico per l'economia nazionale, oltre che di diretta influenza sulla vita quotidiana dei cittadini.

La sentenza che si riporta conclude con l'affermazione della necessità che una società partecipata da enti pubblici che svolge un servizio pubblico possa essere dichiarata fallita. Emerge quindi la natura "privatistica" della società, a dispetto di una serie di norme quali quelle che inducono invece a ritenere la natura di tali soggetti sempre più assimilabile al settore pubblicistico.

La strada verso un chiarimento definitivo è quindi ancora lunga.

Nel frattempo gli operatori si attrezzino.

Società a partecipazione pubblica: possibile dichiararne il fallimento?

La scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali - e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico - comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall'ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità.

Il fenomeno delle società a partecipazione pubblica non è certo nuovo nel nostro ordinamento: il codice civile del 1942 già dettava, agli arti. 2458, 2459 e 2460 c.c., le disposizioni applicabili, in tema di nomina e revoca degli amministratori e dei sindaci, alle "società con partecipazione dello Stato o di altri enti pubb/icr (ed a quelle il cui atto costitutivo prevedesse, pur in mancanza di una partecipazione azionaria, che la nomina di uno o più amministratori e sindaci spettasse alla PA) ma, per lungo tempo, non si è dubitato che si trattasse di società di diritto comune, interamente soggette alla disciplina civilistica ( e perciò anche alla legge fallimentare), distinte dagli enti pubblici (economici) aventi ad oggetto esclusivo o principale un'attività di impresa (art. 2201 c.c.), ma non fallibili ai sensi degli arti. 2221 c.c. ed 1 comma 10 I. fall. .

A partire quantomeno dall'ultimo decennio del secolo scorso, il contesto politicoeconomico di riferimento ha però subito un innegabile mutamento: il progressivo assottigliarsi della linea di confine fra l'agire pubblico e l'agire privato, l'abbandono di una concezione autoritativa della P.A. in favore di una sua concezione funzionale, nella quale i poteri di cui essa è dotata sono intesi come meramente strumentali alla tutela dell'interesse pubblico, il convincimento diffuso che tale interesse possa essere maggiormente garantito attraverso il ricorso ad istituti di diritto comune, indubbiamente più snelli di quelli usualmente a disposizione dell'apparato burocratico, la fiducia nelle capacità del "mercato" di stimolare la competitività, e quindi di regolamentare al meglio anche attività di contenuto economico tipicamente riservate alla pubblica amministrazione, hanno dato luogo alla sempre più diffusa costituzione (al vero e proprio proliferare) di società c.d. pubbliche, a partecipazione integralmente pubblica o mista, pubblica-privata, o sottoposte ad una particolare influenza da parte di enti pubblici, aventi ad oggetto la gestione non solo di beni proprietà pubblica, ma di servizi di interesse pubblico, in precedenza erogati dallo Stato o dagli enti territoriali attraverso aziende municipalizzate.

Non è invece mutato il quadro normativo generale: il legislatore ha ribadito la scelta favorevole alla riconducibilità delle società pubbliche fra quelle di diritto comune sia con il d. Igs. n. 3/03, di riforma del diritto societario, che ha sostituito agli arti. 2458/60 gli arti. 2449 e 2450 c.c. (quest'ultimo, fra l'altro - relativo all'attribuzione allo Stato o ad altri enti pubblici privi di partecipazione azionaria della facoltà di nomina di amministratori e sindaci - abrogato, a seguito dell'awio di una procedura d'infrazione da parte della Commissione europea, dall'art. 3 comma 1 del d.l. n. 10/07, convertito nella I. n. 46/07), sia col d.lgs. n. 5/06 di riforma del diritto fallimentare, che non ha modificato l'art. 1 comma 1° del R.D. n. 267/42.

E, come sottolineato da autorevole dottrina, neppure le innumerevoli disposizioni normative speciali che, nel corso degli anni, sono state emanate in tema di società pubbliche, costituiscono un corpus unitario, sufficiente a regolamentame attività e funzionamento ed a modificame la natura di soggetti di diritto privato, cosi da sottrarle espressamente alla disciplina civilistica.

La sempre più stretta commistione fra la sfera pubblica e quella privata ha, nel contempo, condotto all'emanazione di numerose leggi speciali applicabili ad enti, società pubbliche e società formalmente private, accomunati dall'agire in settori di pubblico interesse: in questa sede, a mero titolo esemplificativo, si possono citare l'art. 3, comma 26, del d. Igs. n. 163/06 (codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e fomiture), che definisce organismo pubblico, cui è imposto il rispetto delle norme dettate per gli appalti pubblici, qualsiasi organismo, anche in forma societaria, istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale e dotato di personalità giuridica, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico" e l'art. 22 della I. n. 241/90, come modificato dall'art. 15 della I. n. 15105, che prevede il diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse e che, alla lettera e), ricomprende nella nozione di pubblica amministrazione "tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario".

Tuttavia, è proprio dall'esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.

In altre occasioni è stata la giurisprudenza a ritenere applicabili alle società pubbliche o, comunque, attive in settori di pubblico interesse, determinate discipline pubblicistiche: Cass. S.U. n. 9096/05 ha affermato che la qualificazione di un ente come società di capitali non è di per sé sufficiente ad escluderne la natura di istituzione pubblica e quindi ad impedire l'iscrizione nell'apposito albo speciale dell'avvocato operante presso il suo ufficio legale; Cass. S.U. n. 4511/06 ( seguita da altre pronunce conformi) ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti in relazione a fattispecie di danno erariale cagionato da società beneficiarie dell'erogazione di fondi pubblici, attraverso i quali erano state chiamate a partecipare alla realizzazione di un programma imposto dalla P.A.; Cass. S.U. n. 26806/09 ha ritenuto che l'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori spetta alla giurisdizione della Corte dei conti ogni qualvolta trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'utilizzo di risorse pubbliche, o da arrecare pregiudizio al suo patrimonio (con la precisazione che, in quest'ultimo caso, l'azione erariale concorre con l'azione civile di responsabilità).

Le sentenze citate, nel prevedere l'applicabilità a società di capitali di norme pubblicistiche solo a specifici fini, non si pongono però in contrasto con il principio giurisprudenziale costantemente enunciato, a partire da Cass. n. 58179 (proprio in una fattispecie in cui si discuteva della fallibilità di una s.p.a. concessionaria dello stato e partecipata da enti pubblici), secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale; le numerose pronunce che ribadiscono tale principio (per tutte, Casso S.U. n. 7799/05) trovano fondamento nell'incontestabile rilievo che il rapporto tra società ed ente pubblico é di assoluta autonomia, posto che l'ente può incidere sul funzionamento e sull'attività della società non già attraverso l'esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina.

In materia fallimentare, proprio in questa logica, ancor di recente la Suprema corte ha avuto occasione di affermare che una società per azioni il cui statuto non evidenzi poteri speciali di influenza ed ingerenza dell'azionista pubblico, ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto societario, ed il cui oggetto sociale non contempli attività di interesse pubblico da esercitarsi in forma prevalente, comprendendo, invece, attività di impresa pacificamente esercitabili da società di diritto privato, non perde la sua qualità di soggetto privato - e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale fallibile - per il fatto che essa, partecipata da un comune, svolga anche funzioni amministrative e fiscali di competenza di quest'ultimo (Cass. n. 21991/012).

Nel contesto frammentario e multiforme di cui si è cercato sommariamente di dar conto si è tuttavia fatta strada la tesi, di recente avanzata anche nella giurisprudenza di merito, che vi sono società partecipate aventi sostanziale natura giuridica pubblica, desumibile in via interpretativa da taluni indici (in linea di massima, e di volta in volta, rawisati in limitazioni statutarie all'autonomia degli organi societari, nell'esclusiva titolarità pubblica del capitale, nell'ingerenza nella nomina degli amministratori da parte di organi promananti dallo stato, nell'erogazione di risorse pubbliche per il raggiungimento dello scopo), le quali vanno equiparate ad ogni effetto (e dunque anche ai fini della loro esenzione dal fallimento) agli enti pubblici.

Va subito detto che la tesi mal si concilia con la perdurante vigenza del principio generale stabilito dall'art. 4 della I. n. 70/75, che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco.

Essa, peraltro, non può essere condivisa alla luce di un'analisi del fenomeno societario nelle diverse fasi che lo caratterizzano. Va in primo luogo escluso che peculiarità, tali da giustificare l'equiparazione ad un ente pubblico di società a partecipazione pubblica, si rinvengano sul piano del soggetto, ossia dell'ente giuridico "società", e del modo in cui sono disciplinati la sua organizzazione ed il suo funzionamento, e i rapporti esistenti, al suo interno, fra i diversi organi che vi operano.

E ciò vale anche nel caso in cui norme legislative o statutarie pongano limiti alla autonomia degli organi deliberativi. posto che la volontà negoziale della società pubblica, pur se determinata da atti propedeutici dell'amministrazione, si forma e si manifesta secondo le regole del diritto privato. Ad analoga conclusione deve giungersi avuto riguardo al piano dell'attività, cioè dei rapporti che la società, in quanto soggetto riconosciuto dall'ordinamento come dotato di una propria capacità giuridica e di agire, instaura con i terzi.

Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono, infatti, sul modo in cui essa opera nel mercato nè possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica .

Il discorso è indubbiamente più delicato quando si passa ad esaminare il piano della funzione, ossia dello scopo per il cui perseguimento la società è costituita ed agisce, non potendosi tacere che nell'operare di talune società pubbliche, in specie di quelle affidatarie di pubblici servizi, non è sempre dato ravvisare quell'attività economica a scopo di lucro che l'art. 2247 c.c. tuttora indica come elemento caratteristico di ogni società di capitali.

Ma, non potendosi al contempo disconoscere che il modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica, sino a divenire un contenitore adattabile a diverse finalità (si pensi, ad es., alle società sportive di cui alla I. n 91/81 " l'eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile.

Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, si può, in definitiva, concordare con l'assunto della ricorrente, secondo cui non è possibile enucleare, in via descrittiva, uno statuto unitario delle società in mano pubblica, le quali (come può accadere anche a società a capitale interamente privato) sono assoggettate alle normative pubblicistiche nei settori di attività in cui assume rilievo la natura pubblica dell'interesse perseguito, da realizzare attraverso disponibilità finanziarie pubbliche, senza che per questo possa predicarsene l'appartenenza ad un tertium genus, qualificabile come società- ente, sottratto in toto al diritto comune.

Ciò che non può condividersi è invece il corollario che da tale premessa Asidev Ecologica intende trarre, che si sostanzia nell'affermazione che la verifica dell'applicabilità alle società in mano pubblica di discipline di settore pubblico o privato, in difetto di specifiche disposizioni normative, va compiuta di volta in volta, a seconda della materia di riferimento ed in vista degli interessi tutelati dal legislatore.

In tale ottica, per venire al tema che in questa sede interessa, secondo la ricorrente non potrebbero essere dichiarate fallite le società partecipate (fra le quali essa si annovera) aventi carattere necessario per l'ente territoriale, ovvero quelle che svolgono un servizio pubblico essenziale, la cui esecuzione continuativa e regolare verrebbe ad essere pregiudicata dalla dichiarazione di fallimento.

La prima, facile, obiezione che può muoversi a tale assunto è che ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale non è il tipo dell'attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse, seguendo fino in fondo la tesi, si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento.

Neppure è persuasivo l'argomento che, dalla necessità del servizio pubblico gestito, vorrebbe far derivare la necessità del soggetto privato che lo eroga, con conseguente sua esenzione dal fallimento.

Va intanto ricordato che il d.l. n. 134/08, convertito dalla I. n. 166/08, detta norme specifiche in materia di ristrutturazione industriale di grandi imprese in crisi che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali, proprio al fine di assicurare che questi non subiscano interruzioni, ma non esclude che tali imprese siano sottoposte alla procedura di amministrazione straordinaria.

Risulterebbe pertanto privo di coerenza un sistema che, per contro, esonera dalla procedura concorsuale ordinaria i gestori di servizi pubblici essenziali che non raggiungono le soglie dimensionali necessarie per accedere a quella di amministrazione straordinaria.

Venendo, più specificamente al tema delle società partecipate da enti locali, la complessa disciplina ricavabile dagli art!. 112/118 del d. Igs. n. 267/08 (T.U.E.L.) e dalle successive leggi di modifica e/o di integrazione mantiene fermo il principio della separatezza fra titolarità degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all'esercizio dei servizi pubblici (che devono restare di proprietà degli enti, salvo che questi non li conferiscano a società a capitale interamente pubblico e incedibile) e attività di erogazione dei servizi, che può essere affidata anche a soggetti privati (art. 4 comma 28 I. 138/011).

Il fallimento della partecipata, ancorché, in ipotesi, costituta all'unico scopo di gestire un determinato servizio pubblico, non preclude dunque all'ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all'esercizio di quel servizio, di affidarne la gestione ad un nuovo soggetto. Infine, il pericolo derivante dal rischio di interruzione del servizio, per il tempo necessario all'ente locale ad affidarlo ad un nuovo gestore, può essere evitato attraverso il ricorso all'istituto dell'esercizio provvisorio, previsto dall'art. 1041. fall.,

Va condivisa sul punto la tesi, avanzata in dottrina e seguita anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui nel valutare la ricorrenza di un danno grave, in presenza del quale autorizzare l'esercizio provvisorio, il tribunale può tenere conto non solo dell'interesse del ceto creditorio, ma anche della generalità dei terzi, fra i quali ben possono essere annoverati i cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall'impresa fallita.

Né si comprende sotto quale profilo l'autorizzazione alla continuazione temporanea dell'esercizio dovrebbe comportare una inammissibile sostituzione dell'autorità giudiziaria ordinaria all'autorità amministrativa, che aveva in precedenza scelto il soggetto cui affidare la gestione e che continuerebbe ad intrattenere con questo, per la durata dell'esercizio, i medesimi rapporti che vi intratteneva prima della dichiarazione di fallimento.

Deve dunque concludersi, secondo quanto è stato correttamente rilevato in dottrina, che la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali - e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico - comporta anche che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall'ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità.

A cura della Redazione

Copyright © - Riproduzione riservata

(Sentenza Cassazione civile 27/09/2013, n. 22209)
18/11/2013
Questo articolo è tratto da:

Massimo Moretti - Avvocato
Taranto, Piazza Ebalia,6 - Tel 0994590188 Fax 0994537873
P.I. 02029330731

© 2013 Capera.it - photo Danilo Giaffreda