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La sentenza civile sul risarcimento per la costituzione di parte civile di Legambiente in uno dei processi ILVA fa giurisprudenza

Qui di seguito una nota dottrinale pubblicata sulla rivista "Quotidiano Legale" sulla importante sentenza del Tribunale di Taranto n. 508/2017  (oggi si discute il giudizio di appello) con la quale è stata accolta la domanda di risarcimento proposta da Legambiente Puglia, patrocinata dal sottoscritto, per il risarcimento del danno "iure proprio" connesso all'inquinamento proveniente dallo stabilimento ILVA.

Una sentenza importante, che offre rilevanti spunti di riflessione in merito all’esistenza del diritto delle associazioni ambientaliste di ottenere il risarcimento “iure proprio” per danni di natura patrimoniale e non patrimoniale, causati da soggetti responsabili di fatti – reati contro l’ambiente, nonché in relazione alla quantificazione concreta del danno da liquidarsioffre rilevanti spunti di riflessione in merito all’esistenza del diritto delle associazioni ambientaliste di ottenere il risarcimento “iure proprio” per danni di natura patrimoniale e non patrimoniale, causati da soggetti responsabili di fatti – reati contro l’ambiente, nonché in relazione alla quantificazione concreta del danno da liquidarsi.

Ma soprattutto una sentenza che riconosce il ruolo della associazione ambientalista nella lotta a difesa dell'ambiente e della collettività jonica in anni nei quali la questione ambientale tarantina non era ancora diventata di pubblico dominio.

 

IL RISARCIMENTO IURE PROPRIO IN SEDE CIVILE PER LE ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE (IN RELAZIONE AI REATI AMBIENTALI).

 

IL RISARCIMENTO IURE PROPRIO IN SEDE CIVILE PER LE ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE (IN RELAZIONE AI REATI AMBIENTALI)

NOTA A SENTENZA – Sentenza n. 508/2017 – Tribunale di Taranto pubblicata il 22.02.2017 Giudice Dott. Antonio Pensato

 

Il caso Taranto

 

Avv.ti Claudio Ripa – Cataldo Giannattasio – Giuseppina Lo Re – Andrea Mancini 

 

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La legittimazione risarcitoria “iure proprio” delle associazioni ambientaliste – 3. Il nesso di causalità – 4. La tipologia del danno. Danno patrimoniale e non – 5. La liquidazione del danno. La problematica sottesa alla precisa quantificazione del danno non patrimoniale La “calibrazione” della quantificazione – 6. Conclusioni.

 

Legittimazione ad agire iure proprio delle associazioni ambientaliste per il risarcimento dei danni diretti subiti a causa del fatto reato di natura ambientale – sussistenza – presupposti – criteri di liquidazione del danno

  1. Premessa.

La sentenza in commento offre rilevanti spunti di riflessione in merito all’esistenza del diritto delle associazioni ambientaliste di ottenere il risarcimento “iure proprio” per danni di natura patrimoniale e non patrimoniale, causati da soggetti responsabili di fatti – reati contro l’ambiente, nonché in relazione alla quantificazione concreta del danno da liquidarsi.

Fin dagli anni sessanta ha avuto inizio il complesso dibattito anche in ambito internazionale, sul carattere polimorfo del bene “ambiente”, sulle lesioni che lo stesso può subire, sulla identificazione dei danni e sulla tutela risarcitoria sotto il duplice aspetto della individuazione dei danni risarcibili e della legittimazione ad agire.

Tra le sentenze antesignane della lunga elaborazione di dottrina e giurisprudenza degne di nota la sentenza del Tribunale di Bastia del 04 luglio 1985 Pres. Pancrazi (Il Foro Italiano Vol. 110 , N. 12 dicembre 1987 pp 499/500- 507/508 ) sul caso dei fanghi rossi di Scarlino, nella quale riconoscendo l’ambiente marino di per sé privo di valore riparabile, i giudici hanno ritenuto opportuno effettuare la trasposizione del concetto di danno biologico all’ambiente in quello di danno «a rilievo puramente finanziario», e sulla base del pregiudizio arrecato all’esercizio della pesca e alle attività di sfruttamento dell’ambiente marino hanno individuato un parametro da applicare ai fini della determinazione del danno arrecato e segnatamente non essendo possibile fornire prova compiuta dell’effettivo danno subito ovvero del mancato guadagno, fu comunque possibile il riconoscimento di un indennizzo compensativo della perdita della possibilità di conseguire un risultato positivo.

Altra importante pronuncia quella del First circuito of Portorico del 1992 nel caso Zoe Colocotroni, la nave cisterna per petroliere che riversò nell’oceano il carico di petrolio greggio, nella quale non potendosi attribuire valore commerciale all’area inquinata, i giudici hanno ritenuto opportuno sostituire la regola di Common Law della «diminution in value» con la regola in base alla quale il danno biologico all’ambiente va risarcito in misura corrispondente all’ammontare delle spese ragionevolmente da sostenere per la riduzione in pristino delle condizioni ambientali preesistenti all’inquinamento.

Il Trattato n. 150 Convenzione sulla responsabilità civile dei danni derivanti da attività pericolose per l’ambiente del 21.06.1993 oltre a definire il significato di taluni termini tecnici come “attività pericolosa”, “sostanze pericolose”, “organismo geneticamente modificato” etc., ha delineato un sistema fondato su una responsabilità oggettiva basato sul principio del “ chi inquina paga” e previsto regole precise per quel che riguarda la colpa della vittima, il nesso di causalità, la solidarietà nel caso di pluralità di installazioni o di siti e la sicurezza finanziaria obbligatoria per coprire la responsabilità prevista dalla Convenzione.

Il concetto di danno all’ambiente nella Convenzione è ampliato facendovi rientrare il «deterioramento dell’ambiente…» nella misura in cui non sia considerato danno alle cose o alle persone «… se ed in quanto tale deterioramento causi una perdita di guadagno economico». Il danno diretto all’ambiente viene, pertanto, quantificato nel costo delle misure preventive e di rimessa in pristino, adottate per contenere, minimizzare o ripristinare la situazione antecedente all’illecito e, qualora la restitutio in integrum sia tecnicamente impossibile, può essere imposto al danneggiante l’obbligo di introdurre nell’ambiente risorse equivalenti a quelle distrutte.

In ambito nazionale in materia di ambiente e di danno ambientale con la legge 349/86 all’art.1 c.2 è stato istituito il Ministero dell’ambiente con il «…compito di assicurare in un quadro organico la promozione, la conservazione ed il recupero delle condizioni ambientali conformi agli interessi fondamentali della collettività ed alla qualità della vita, nonché la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale e la difesa delle risorse naturali dall’inquinamento.».

Tale norma, nel rispetto dell’art.10 Cost. e del principio di diritto comunitario «chi inquina paga», adotta la definizione di ambiente così come delineata dalla direttiva comunitaria sulla valutazione dell’impatto ambientale; in base all’art.3 della dir.337/85 (VIA) l’ambiente è inteso come l’insieme dei fattori: uomo; fauna; flora; suolo; acqua; aria; clima; paesaggio; beni materiali; patrimonio culturale. Una definizione esplicita del bene ambiente è contenuta nell’allegato I punto 2 del D.P.C.M. del 27/12/1988 che recita:«le componenti e i fattori ambientali sono così intesi: -atmosfera : qualità dell’aria e caratterizzazione meteoclimatica; -ambiente idrico: acque sotterranee e superficiali considerate come campionamenti, come ambienti e come risorse; -suolo e sottosuolo: intesi sotto il profilo geologico, geomorfologico e podologico, nel quadro dell’ambiente in esame, ed anche come risorse non rinnovabili; -vegetazione, flora e fauna: formazioni vegetali ed associazioni animali, emergenze più significative, specie protette ed equilibri naturali; -ecosistemi: complessi di componenti e fattori fisici, chimici e biologici tra loro interagenti ed interdipendenti, che formano un sistema unitario ed identificabile per proprie strutture, funzionamento ed evoluzione temporale; -salute pubblica: come individui e comunità; -rumore e vibrazioni: considerati in rapporto all’ambiente sia naturale che umano; -radiazioni ionizzanti e non ionizzanti: considerate in rapporto all’ambiente sia naturale che umano; -paesaggio: aspetti morfologici e culturali del paesaggio, identità delle comunità umane interessate e relativi beni culturali.».

L’art.18 della legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente, dedicato alla responsabilità ed al risarcimento del danno ambientale, al comma 1 (poi abrogato) statuiva che “Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato” riconducendo la responsabilità del danno all’ambiente al compimento di un atto doloso o colposo posto in essere in violazione di norme di legge.

In base al comma 3 del medesimo articolo “ L’azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo” mentre in base al comma 4 “Le associazioni di cui al precedente articolo 13 e i cittadini, al fine di sollecitare l’esercizio dell’azione da parte dei soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza”.

Alle stesse associazioni, secondo il comma 5, è riconosciuto il potere di intervenire nei giudizi per danno ambientale nonché di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi.

Nella quantificazione del danno a norma del comma 6, ove non sia possibile una precisa quantificazione, è attribuito al giudice il potere di determinarne l’ammontare in via equitativa, “tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali” disponendo nella sentenza di condanna, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile (comma 8 art. 18).

Nell’intento del legislatore la via da privilegiare è il risarcimento in forma specifica con il ripristino dell’ambiente rispetto al risarcimento per equivalente.

In merito alla liquidazione del danno per equivalente con una somma di denaro, cui è dedicato il comma 6, che attribuisce al giudice il potere di determinarlo in via equitativa, deve naturalmente farsi riferimento ai criteri dettati dall’art. 2056 cc. a norma del quale “il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223,1226 e 1227” ovvero secondo i criteri di valutazione del “danno emergente” e “lucro cessante” che si trovino in rapporto di causalità con l’illecito.

Le difficoltà nella quantificazione del danno per essere l’ambiente un bene immateriale non valutabile secondo i normali prezzi di mercato sono state affrontate dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 30.12.1987 n. 641 che ha delineato il danno ambientale come patrimoniale e la possibilità di misurare l’ambiente in termini economici e testualmente in rapporto ad “una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui quella di polizia che regolarizza l’attività dei soggetti e crea una sorveglianza sull’osservanza dei vincoli; la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali. Si possono confrontare i benefici con le alterazioni; si può effettuare la stima e la pianificazione degli interventi di preservazione, di miglioramento e di recupero, si possono valutare i costi del danneggiamento.

Il tutto consente di dare all’ambiente e quindi al danno ambientale un valore economico.”

Le prime pronunce giurisprudenziali in materia di danno ambientale con la relativa valutazione, sono state rese dalla giurisprudenza penale, che si è limitata a condanne generiche degli autori del fatto lesivo e fra esse la più risalente è della Pretura di Milano, sezione distaccata di Rho, del 29/06/1989 molto criticata dalla dottrina per la applicazione ritenuta inadeguata dei criteri di cui all’art. 18 comma 6, e altra rilevante è la n. 1286 del 27/11/2002.

Il Tribunale di Venezia affermando che “non è possibile una precisa quantificazione del danno poiché l’evento ha assunto connotazioni tali che non è stato possibile il ripristino, né è stata possibile alcuna misurazione, in termini sia quantitativi che qualitativi, della alterazione o modificazione dell’ambiente”, ha applicato il sistema della valutazione equitativa del danno ex art.18 c.6 L.349/86, utilizzando il criterio della gravità della colpa, sebbene poi non se ne individui appieno la sua incidenza nella determinazione del quantum, ed il criterio relativo al costo necessario per il ripristino, calcolato sulla base del valore dell’attività di ripristino ambientale volta alla depurazione dell’acqua derivante dall’abbattimento dell’ammoniaca, sia pure affermando che “non può considerarsi risolutivo di ogni problema, essendo certo che non consente l’abbattimento dell’intera quantità di ammoniaca presente in atmosfera”.

In ordine al parametro del profitto conseguito dal trasgressore, il giudice ha calcolato i giorni necessari per l’esecuzione dei lavori di sostituzione della valvola (non era stata sostituita una valvola malfunzionante) ovvero “due giorni durante i quali i reparti non avrebbero potuto produrre in quanto sarebbe stata chiusa la linea spurghi ammoniacali”, in tal modo è stato calcolato il valore della produzione a cui l’impresa avrebbe dovuto rinunciare se avesse dato luogo all’intervento di manutenzione che avrebbe evitato il verificarsi dell’incidente, con la doverosa opportuna precisazione che il profitto del trasgressore non deve essere confuso con gli utili aziendali perché una tale errata interpretazione esimerebbe in maniera inammissibile da responsabilità per danno ambientale le imprese in difficoltà o comunque prive di utili di esercizio.

  1. La legittimazione risarcitoria “iure proprio” delle associazioni ambientaliste.

La prima domanda che naturalmente ci si pone affrontando l’argomento in esame alla luce della su richiamata normativa è la seguente: può una associazione ambientalista richiedere “iure proprio” il risarcimento del danno nei confronti di un soggetto che, ponendo in essere una attività dannosa penalmente rilevante nei confronti dell’ambiente, ha causato danni direttamente alla propria sfera giuridica? La risposta è senz’altro affermativa. Tuttavia tale interrogativo non deve ritenersi così scontato se si tiene conto della normativa sviluppatasi proprio nell’ambito del diritto ambientale. E tanto impone di dover formulare alcune precisazioni.

A livello normativo, la volontà del Legislatore è stata chiaramente quella di riservare il maggiore potere risarcitorio in materia ambientale in favore dello Stato e per esso del Ministero dell’Ambiente, lasciando alle associazioni ambientaliste, nonché ad altri soggetti opportunamente individuati, limitati poteri di azione.

Segnatamente, secondo l’art. 311 del d.lgs. 152/2006, il Ministro dell’ambiente agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e se necessario, per equivalente patrimoniale. Invero, allorquando si verifica un danno ambientale i responsabili sono obbligati ad adottare misure di riparazione, ponendo in essere un risarcimento in forma specifica; tuttavia, nel momento in cui tale tipologia di ristoro dei danni sia omessa, o comunque non sia soddisfacente rispetto ai termini prescritti, il Ministro dell’ambiente, secondo la citata normativa, oltre a determinare i costi per le attività necessarie per raggiungere gli obbiettivi preposti per il risanamento ambientale, è tenuto ad agire nei confronti del responsabile al fine di ottenere il risarcimento corrispondente alle somme necessarie per compiere le citate attività che sono state omesse.

Di contro, sfogliando la normativa contenuta nel Testo Unico Ambientale, non si evince che il Legislatore abbia previsto per le associazioni ambientaliste, la possibilità di proporre autonoma azione risarcitoria “iure proprio”, conseguenti a fatti penalmente rilevanti che incidono in maniera negativa sull’ambiente; ed invero a mente dell’art. 318 del d.lgs. 152/2006, è stato conferito esclusivamente il potere da parte delle associazioni (all’uopo individuate in forza dei criteri previsti dalla L. 349/1986), di intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi.

Addirittura, leggendo il comma 2 lett. b) dello stesso art. 318 si ricava in modo ancora più evidente la volontà del Legislatore di limitare “l’impulso risarcitorio” alle associazioni, tenuto conto che tale diposizione normativa ha abrogato il comma 3 dell’art. 9 del d.lgs. 267/2000, che prevedeva la facoltà della associazioni ambientaliste di proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettavano al Comune, Provincia, conseguenti al danno ambientale.

Per completezza, vi è infine da aggiungere che l’art. 309 del già citato Testo Unico Ambientale dispone che le Regioni, Provincie e gli enti locali, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimamente la partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle misure di precauzione prevenzione o ripristino, possono presentare al Ministro dell’Ambiente denunce e osservazioni, opportunamente documentate, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiederne l’intervento statale per fini di tutela. Secondo il disposto del comma 2 anche le organizzazioni non governative e che promuovono la protezione dell’ambiente sono riconosciute titolari di tali interessi, i quali hanno anche titolo ad agire per l’annullamento degli atti e provvedimenti adottati in violazione del Codice dell’ambiente, avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell’Ambiente, per il risarcimento del danno a causa del ritardo nell’attivazione da parte del Ministero all’adozione di misure per contenere o prevenire il danno ambientale.

Purtuttavia, le associazioni ambientaliste non sono rimaste inerti rispetto al quadro normativo che si è delineato, ed hanno iniziato ad proporre una serie di istanze risarcitorie che, con il passare del tempo, hanno determinato lo sviluppo di un granitica giurisprudenza (opportunamente citata nella sentenza in esame1) che, scavando un importante solco nell’ambito della normativa ambientale, ha espressamente ritenuto risarcibile, in favore dell’associazioni costituite a tutela di determinati beni, il danno non patrimoniale subito iure proprio, quale riflesso del reato, per il pregiudizio arrecato al perseguimento di interessi che costituiscono fine statuario, risolvendosi in un attentato alla personalità ed identità dell’ente, considerato anche il rilievo costituzionale assegnato alla libertà di associazione per lo sviluppo della propria personalità (art. 2 della Carta Costituzionale).

Si è pertanto giunti alla conclusione che la normativa speciale dal “danno ambientale” innanzi richiamata non ha sostituito, bensì si è affiancata alla disciplina generale del danno regolamentata dal codice civile, consentendo pertanto alle associazioni ambientaliste (nonostante l’abrogazione del comma 3 dell’art. 9 del d.lgs. 267/2000) a costituirsi parte civile “iure proprio”, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, ovvero avanzare autonome azioni civile volte al  risarcimento dei danni direttamente subiti ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell’ambiente2.

In buona sostanza, pur essendo normativamente previsto che spetta soltanto allo Stato, e per esso al Ministro dell’Ambiente, la legittimazione alla costituzione di parte civile nel procedimento penale per reati ambientali, al fine di ottenere il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale all’ambiente 3 (c.d danno ambientale puro), è stato chiarito altri soggetti, singoli o associati, ivi comprese le Regioni e gli Enti pubblici territoriali minori, possono agire ai sensi dell’art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, da essi subito, diverso da quello ambientale4. Da tanto discende che le associazioni ecologiste sono legittimate, non solo a costituirsi parte civile, al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da esse concretamente patiti a causa del degrado ambientale, ma evidentemente anche ad esercitare autonoma azione civile di risarcimento di natura extracontrattuale per ottenere il ristoro di danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale5. Dunque, le associazioni ambientaliste, sono legittimate ad agire quando perseguono un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l’interesse all’ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato6. Riassumendo, affinchè una associazione ambientalista possa avanzare legittimamente istanza di risarcimento danni, è preliminarmente necessario l’accertamento di un danno (o fatto penalmente rilevante) di tipo ambientale, che abbia determinato conseguentemente un danno diretto riferibile alla sfera giuridica dell’ente stesso.

  1. Il nesso di causalità.

Premesso quanto sopra, deve essere necessariamente affrontata la problematica sottesa alla dimostrazione del “nesso di causalità” da parte dell’associazione ambientalista; quest’ultima infatti è gravata dall’onere di dimostrare in giudizio (secondo il generale principio dell’onere probatorio imposto dall’art. 2697 c.c.) i fatti posti a fondamento della propria domanda ed in modo particolare provare che il “fatto – reato” ambientale abbia prodotto un danno all’associazione stessa. Non può infatti essere ritenuto sufficiente la mera qualifica di “associazione ambientalista” rapportata ad un determinato evento dannoso, essendo invece necessario dimostrare il nesso di causalità tra i due elementi.

A tale riguardo la sentenza in commento offre un importante spunto per comprendere quale associazione possa agire “iure proprio” per l’ottenimento di un risarcimento. Ed infatti il Giudice del Tribunale di Taranto argomenta ritenendo che l’azione delittuosa posta dal responsabile in danno dell’ambiente, ha avuto un effetto dannoso riflesso anche sull’attività dell’associazione, finalizzata alla interlocuzione con le altre istituzioni per cercare di limitare l’attività di inquinamento del responsabile in sede amministrativa, alla denuncia alle istituzioni stesse ed a quella giudiziaria, rappresentando i pericoli dell’azione posta in essere dal responsabile, alla organizzazione di manifestazione di protesta civile per sensibilizzare l’opinione pubblica, le istituzioni ed il responsabile del danno ambientale. Specifica il Magistrato che l’attività delittuosa ha pregiudicato le attività, previste espressamente nello statuto dell’associazione che si assume danneggiata, atteso che la perpetrarsi del reato ha, di fatto, vanificato le finalità dell’ente tanto da ingenerare nella collettività la convinzione della sostanziale inutilità della associazione stessa.

Da quanto affermato dal Magistrato Territoriale si può affermare che, ai fini della legittimazione ad avanzare una istanza risarcitoria è necessario, in primis, l’esistenza di un fatto reato che danneggia l’ambiente, e che lo stesso abbia un riflesso concreto nell’attività dell’associazione stessa. Tale “riflesso” deve estrinsecarsi avendo riguardo ai principi statutari dell’associazione, i quali rapportati all’evento dannoso denunciato devono apparire come oggettivamente lesi; sarà quindi necessario, da parte del Magistrato Giudicante, valutare in concreto che l’associazione abbia cercato effettivamente di raggiungere tali scopi statuari. In altri termini, non può ritenersi esaustiva, ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria, una mera comparazione in astratto tra il fatto lesivo posto in contrasto con lo statuto dell’associazione, bensì, in modo più specifico verificare che il fine cui mira l’associazione stessa sia stato effettivamente leso dall’azione dannosa.

  1. La tipologia del danno. Danno patrimoniale e non.

Altro quesito a cui deve essere data una risposta è quello che attiene alla tipologia del danno che può richiedere l’associazione ambientalista che agisce “iure proprio”.

Deve ritenersi sul punto che la domanda di risarcimento in favore dell’associazione ambientalista non deve ritenersi limitata all’ambito patrimoniale di cui all’art. 2043 cod. civ., poiché l’art. 185, 2° comma, cod. pen. – che costituisce l’ipotesi più importante “determinata dalla legge” per la risarcibilità dei danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. – dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo dei soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi “danneggiato” per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo7. Ed infatti il diritto al risarcimento in capo alle associazioni non deriva propriamente dall’incidenza dei fatti-reato che hanno causato un danno all’ambiente, sul patrimonio dell’ente, e dal danno non patrimoniale derivante da reato ai sensi dell’art. 2059 c.c. e dell’art. 185, c.2 c.p.

  1. La liquidazione del danno. La problematica sottesa alla precisa quantificazione del danno non patrimoniale. La “calibrazione” della quantificazione.

Esaminando nello specifico eventuali voci di danno che l’associazione potrebbe richiedere non vi sono particolari dubbi per ciò che attiene quello di natura strettamente patrimoniale (si pensi ad esempio agli esborsi finanziari sostenuti dall’associazione per svolgere la propria attività istituzionale di tutela ambientale, risultata vanificata dall’azione dannosa, piuttosto che i minori introiti derivanti dal tesseramento annuale, ovvero il mancato accesso a forme di finanziamento, sempre posto in relazione al fatto dannoso). In tale ipotesi è pressochè scontata la liquidazione del danno, ponendo in essere delle “semplici” operazioni matematiche in base all’effettivo danno patrimoniale subito.

Maggiori problematiche sorgono per quello che è il danno non patrimoniale. Ed infatti, tale istanza risarcitoria non è assolutamente dimostrabile in termini precisi, e pertanto il Magistrato dovrà procedere per equivalente e con criterio equitativo, in forza dell’art. 1126 c.c.; tuttavia l’ostacolo maggiore è costituito proprio dalla quantificazione in termini monetari del danno, tenuto conto che il Giudicante per tali voci di danno non è in possesso in un riferimento preciso di tipo “tabellare” da cui attingere e liquidare conseguentemente le somme in modo schematico. A tanto si aggiunge la obiettiva difficoltà del Magistrato nell’esplicitare le motivazioni che lo hanno determinato a monetizzare il risarcimento liquidando una somma piuttosto che un’altra, e la conseguenziale e legittima critica e/o censura dei destinatari dei provvedimenti.

La complessità dell’iter che conduce alla nella liquidazione del danno non patrimoniale è stata riconosciuta anche dalla Suprema Corte di Cassazione la quale ritiene che nel momento in cui il Giudice applica il criterio equitativo, non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un unico e necessario rapporto di conseguenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata8.

Si ritiene tuttavia doveroso ritenere che nell’ambito della decisione assunta il Magistrato non deve tramutare il suo potere discrezionale in un mero arbitrio, svincolato dagli altri principi del nostro ordinamento giuridico.

Sotto tale profilo è indubbio che il Magistrato, così come avvenuto nella sentenza in esame, per quantificare con maggiore esattezza possibile il danno, verifichi alcuni aspetti concreti, quali ad esempio l’impegno profuso da parte dell’associazione nel cercare di contrastare il fatto dannoso posto in essere dall’agente, il numero dei tesserati dell’associazione, l’estensione capillare dell’associazione sul territorio e la sua popolarità, la portata della violazione dei fini statutari da parte dell’agente, il clamore mediatico rispetto ai fatti in esame.

Tuttavia tali considerazioni concrete non possono ritenersi da sole sufficienti ai fini della corretta liquidazione del danno, in quanto rischierebbero di non tradursi in una “giusta ed equa” quantificazione in termini monetari.

In tale ambito si ritiene che possa richiamarsi un interessante criterio della liquidazione del danno in via equitativa, cd. “calibrata”9Tale definizione si distinguedal c.d. criterio equitativo “puro”, sancito dall’art. 1226 c.c., il quale non prevedendo criteri uniformi che concorrano alla determinazione della base risarcitoria, si presta, tendenzialmente, a soluzioni risarcitorie che sono condizionate essenzialmente dalla sensibilità del Magistrato. Orbene, nell’ambito della materia trattata, proprio stante la oggettiva difficoltà di procedere ad una quantificazione in termini economici del danno non patrimoniale si ritiene che debba essere applicato un principio maggiormente aderente alle esigenze delle parti istanti.

Segnatamente, il criterio della liquidazione “calibrata” prevede un raffronto del caso in esame rispetto ad altri precedenti, con l’intento, di determinare il quantum risarcitorio rispetto a quanto già deciso in passato da altre Corti. Diventano pertanto decisivi i confronti da parte del Giudicante con i precedenti giurisprudenziali e le proporzioni fra le varie poste risarcite: in tale modo sarà possibile identificare una porzione “fissa” del quantum da liquidare – applicabile in via generale a tutti soggetti colpiti dal fatto dannoso – ed una parte “variabile” aderente alla situazione soggettiva specifica.

Il raffronto dei precedenti giurisprudenziali, consente pertanto al Giudice di perfezionare e limare i propri criteri di liquidazione, in base agli illeciti esaminati ed ai soggetti lesi10.

L’equità pertanto nel caso in esame deve essere qualificata come adeguata e proporzionata al fine di garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo “diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie”; equità, come sopra già espresso, non vuol dire arbitrio, perchè quest’ultimo, non scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere sorretto da adeguata motivazione. Alla nozione di equità è consustanziale l’idea di adeguatezza e di proporzione. Ma anche di parità di trattamento11.

Ci troviamo di fronte a principi “giusti”, in linea con l’orientamento consolidato della Suprema Corte di Cassazione secondo cui “l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c., deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perchè esaminati da differenti Uffici giudiziari”12.

  1. Conclusioni.

L’associazione ambientalista, così come altre forme associative che si assumono danneggiate da un fatto penalmente rilevante in materia ambientale, sono legittimate a procedere in danno del responsabile al fine di ottenere il ristoro dei danni diretti che hanno subito e che hanno leso, oltre che il patrimonio, anche l’immagine dell’associazione nonché hanno limitato e/o reso impossibile il raggiungimento dello scopo associativo. Tale attività si potrà realizzare non soltanto con l’esercizio dell’azione civile nel procedimento penale che tratta il reato ambientale (che tuttavia presuppone un allungamento dei tempi per l’effettiva liquidazione del danno), ma anche mediante l’attivazione di autonomo processo civile per responsabilità extracontrattuale nei confronti del responsabile. Ai fini della liquidazione del danno sarà opportuno fornire al Giudicante quanti più elementi possibili non solo al fine di dimostrare il nesso di causalità tra “causa ed effetto”, ma anche per provare la gravità del danno subito, e, in modo particolare, consentire al Giudicante di “calibrare” in modo equo l’entità della liquidazione del danno, raffrontando i precedenti giurisprudenziali in materia.

Per inciso, si ritiene che l’istanza risarcitoria determinata da reati ambientali, mediante l’attivazione di un processo civile, non possa rimanere circoscritta ad associazioni ambientaliste, bensì possa essere allargata a soggetti giuridici non definibili come “ambientalisti” di tipo collettivo, che si assumono comunque danneggiati dall’attività illecita ambientale (si pensi, a mero titolo esemplificativo, ad associazioni di subacquei che non possono più effettuare attività di immersione in un determinato ambiente acquoso che si è contaminato a causa dell’attività illecita di una determinata azienda, ovvero ad associazioni che promuovono lo sviluppo del territorio che sono impedite nello svolgimento della propria attività a causa dell’inquinamento atmosferico, enti turistici che vedono ridotta la platea dell’utenza a causa della compromissione ambientale della zona ove esercitano che ha ingenerato nei confronti del turista la pericolosità di frequentare la zona stessa).

E’ pertanto evidente come, nel corso degli anni, si sia sviluppata una maggiore sensibilità alla materia ambientale a più livelli; tanto ha determinato un incremento delle decisioni giurisprudenziali, le quali, su sollecitazione delle diverse parti che fanno parte del tale delicatissimo settore “ambiente”, ha finito per consentire azioni risarcitorie riconducendole nell’alveo della responsabilità aquiliana.

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1 Cass. Pen. SS.UU n. 38343/2014

2 Cass. Pen. Sez. III, n. 19439 del 17 gennaio 2012.

3 Cass. Pen., Sez. III, n. 24677 del 11 giugno 2015

4 Cass. Pen. Sez. III, n. 19437 del 23 maggio 2012, idem Cass. Pen. Sez. III, n. 4105 del 21 ottobre 2010

5 Cass., Pen. Sez. III, n. 36514 del 03 ottobre 2006

6 Cass., Pen. Sez. III, del 25 gennaio 2011.

7 Sentenza Cass. n. 29077/13 (ud. pubbl. 04/06/2013, dep. 09/07/2013)

8 Cass. Civ. Sez. III Sent. 10.11.2015 n. 228885

9 Tribunale Brindisi, sez. Ostuni, sentenza 14.12.2011

10 G. Cassano, Provare, risarcire e liquidare il danno esistenziale, Milano Il Sole 24 Ore, 2005.

11 Cass. Civile, 7/6/2011, n. 12408

12 Cassazione civile sez. III – 20 febbraio 2015 n. 3374

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